Le parole sono azioni. Dalla società all’individuo.
Nella pragmatica linguistica, con atto perlocutivo si intende l’effetto che il dire produce sul circostante. Questo implica, evidentemente, che il linguaggio “sia una azione”, come ebbe più volte ad argomentare Wittgenstein1 , azione che modifica i soggetti e la realtà, mutando le percezioni e i significati.
Cosa comporta realmente questo? Comporta che il linguaggio, come pratica relazionale e simbolica, è in grado di ‘agire’, cioè di con-dizionare la realtà e il circostante. In tal senso, appare chiaro come il linguaggio mantenga o decostruisca a seconda dell’uso (della pragmatica appunto) non solo le percezioni sociali storicamente radicate, ma addirittura quelle auto-percezioni e autonarrazioni che vanno a formare le personalità individuali e l’inconscio collettivo: come direbbe Lacan «il messaggio linguistico […] proviene sempre dall’Altro». In altre parole: siamo parlati dal linguaggio.
La questione, tutt’altro che accademica, è in realtà di enorme portata. Perché, a questo punto, quello che conta è cosa il linguaggio veicoli e con quali modalità. Che impatto può avere infatti l’hate speech nella costruzione dei codici relazionali? E delle soggettività? Evidentemente enorme: a lungo, in inglese, si è usata la parola “Queer” (strano, eccentrico, guasto) per umiliare le persone gay: lo stereotipo dell’ “errore” insito nell’essere omosessuale andava di pari passo con l’introiezione del disvalore (cioè l’omofobia interiorizzata) a livello personale e sociale. Su altro versante, l’offesa che la vittima riceve dal bullo (“ciccione, frocio, handicappato mentale”) va sovente a co-costruire la soggettività: si finisce insomma per credere a quel che viene detto su di noi.
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